Un estratto delle comunicazioni ricevute dalla Libia. Situazione drammatica. Urgente un intervento
Circa 350 profughi Eritrei detenuti a Misratah in Libia, chiedono aiuto per far cessare la violenza inaudita a cui sono sottoposti dal pomerigio del 29 giugno.
Tra loro ci sono circa 80 minoreni.
I profugih riferiscono di percosse, manganellate con 30 persone ferite seriamente: un vero e proprio bagno di sangue. La situazione è molto grave, con persone disperate che minacciano il suicidio, ingerendo della varechina o altre sostenza tossiche.
E’ necessario che qualcuno, Unione Europea o Nazioni Unite, intervenga immediatamente per salvare queste persone dal rischio di morte sotto i manganelli delle guardie carcerarie o per un suicidio collettivo provocato dalla disperazione.
Successivamente è iniziata una vera e propria deportazione forzata dal Centro di detenzione di Mishratah. E’quello che i profughi temevano: l’espulsione forzata, chiusi in camion container come bestiame.
Non si conosce la loro destinazione, ma i profughi temono di essere espulsi verso il paese di origine, cioè l’Eritrea.
Si tratta di una totale violazioni dei diritti dei richiedenti asilo politico.
E’ necessario fermare questa deportazione forzata in corso.
Tratto da: MeltingPot Europa
Invitiamo tutti e tutte a mandare una mail al ministro dell’Interno Maroni a info@interno.it. Questo il testo: «Io, (nome e cognome) sono convinto che un Paese civile non possa essere complice di un crimine contro l’umanità. Fermate il massacro dei prigionieri eritrei in Libia».
I fatti risalgono al 29 giugno. Nel carcere di Misratah esplode la protesta degli eritrei. Duri scontri con la polizia dopo il rifiuto di fornire le proprie generalità all'ambasciata eritrea. Nella notte, circa 250 persone sono deportate nei camion container nel carcere di Brak, nella provincia di Sebha, nel deserto libico. Molti di loro sono eritrei respinti in mare dall'Italia nell'ultimo anno. Si appellano alla comunità internazionale per fermare l'espulsione di massa, mentre in cella continuano violenze e umiliazioni.
Che fine hanno fatto i respinti lo sappiamo già: rinchiusi in carcere in Libia. Ma adesso il problema è capire che fine faranno. Dall'alba del 30 giugno infatti abbiamo perso le loro tracce. I container sono partiti carichi di uomini alle cinque del mattino, lasciandosi alle spalle i cancelli del campo di detenzione di Misratah. Un reparto dell’esercito ha fatto irruzione nelle celle in piena notte. Le ultime telefonate d’allarme sono giunte alle cinque del mattino. Poi il silenzio: tutti i telefonini sono stati sequestrati. I detenuti portati via sono almeno 300. Tutti eritrei, uomini e donne, compresi una cinquantina di minorenni. Tutti arrestati sulla rotta per Lampedusa, chi respinto in mare nell’ultimo anno e chi fermato nelle retate della polizia libica a Tripoli. La diaspora eritrea, da Roma e da Tripoli, ci ha chiesto di dare la massima diffusione alla notizia, perché il rischio di un’espulsione di massa a questo punto è molto alto.
Che a Misratah tirasse una brutta aria lo si era capito da un pezzo. Da quando, tre settimane fa, il governo libico aveva espulso l’Alto Commissariato dei Rifugiati delle Nazioni Unite, che proprio a Misratah aveva regolare accesso da ormai tre anni. Ma i guai sono arrivati nella giornata di ieri. I militari libici hanno consegnato ai detenuti i moduli dell’ambasciata eritrea per l’identificazione. Tutti si sono rifiutati categoricamente di fornire la propria identità all’ambasciata, temendo che fosse il primo passo per un’espulsione collettiva. Al loro rifiuto la tensione è salita, fino a sfociare in una rivolta, con un durissimo scontro con le forze di sicurezza. Qualcuno ha tentato di scavalcare il muro di cinta e fuggire, ma l’evasione è stata presto sventata e la protesta duramente repressa a colpi di manganellate.
Secondo l’agenzia Habesha, che da Roma ha potuto raggiungere telefonicamente alcuni detenuti di Misratah, ci sarebbero una trentina di feriti gravi, che sarebbero stati portati via nei container insieme a tutti gli altri. Habesha riferisce anche di tentati suicidi per evitare la compilazione dei moduli di identificazione. Il timore generale è infatti quello di essere espulsi in Eritrea. La Libia ha sospeso le espulsioni verso Asmara negli ultimi tre anni, ma la chiusura dell’ufficio dell’Unhcr a Tripoli non lascia ben sperare. Una fonte informata e presente in Libia sostiene più verosimile che si tratti di una deportazione da Misratah ad altri campi di detenzione per punire i rivoltosi e dividerli in gruppi più piccoli in altri centri. Tuttavia l’allarme per il rischio espulsione di massa rimane altissimo. La diaspora eritrea da anni passa attraverso Lampedusa per chiedere asilo politico in Europa. La situazione ad Asmara è sempre più preoccupante.
Tratto da: FortressEurope
di Gabriele Del Grande
Da tre giorni un rumore mi perseguita. È un rullare di ruote e uno sbattere, vibrare e cigolare di ferri. Con uno sfondo sonoro di lamentazioni di uomini. L'ho sognato anche stanotte. È il rumore delle deportazioni. L'esercito libico ha fatto irruzione nel carcere di Misratah all'alba del 30 giugno, il giorno dopo la rivolta degli eritrei. Molti stavano ancora dormendo. Li hanno portati via così, 300 persone circa, alcuni ancora nudi, altri feriti dai pestaggi del giorno prima. E li hanno rinchiusi dentro due camion, dentro un container di ferro, di quelli che si usano sui treni merci e sulle navi cargo. Quando, il pomeriggio del 30 giugno, sono riuscito a contattarli al telefono, erano ancora dentro il container.
Il camion correva veloce sulla strada, e a ogni buca i ferri del cassone sbattere sul rimorchio. A. non parlava inglese, ma quando ha sentito “Italy” ha passato il cellulare ad altri, borbottando qualcosa in tigrino. Così, nel buio pesto del container, in quel forno che deve essere una scatola di ferro sotto il sole del Sahara, riempito con 150 persone appiccicate una addosso all'altra, passando di mano in mano, il telefono ha raggiunto D.. Era l'unico telefono sfuggito alle perquisizioni. L'ultimo filo con il mondo esterno. D. parlava inglese. “Ci sono donne e bambini svenuti qua in mezzo - ha detto - ci manca l'aria”. Io, quei container li ho visti, nel 2008, a Sebha. E li ho anche fotografati, di nascosto. E come me, li ha visti il prefetto Mario Morcone, del Ministero dell'Interno, durante le sue missioni in Libia. E li hanno visti Marcella Lucidi e Giuliano Amato, quando nel 2007 volarono a Tripoli per firmare l'accordo sui respingimenti che – spesso lo si dimentica – fu voluto dal governo Prodi, prima che arrivassero i Maroni e i Berlusconi.
Io nei container ci metterei questi signori. Anzi ci metterei i loro figli. E poi li farei sedere a fianco dei padri e delle madri che in queste ore in Italia piangono la sorte dei propri cari in Libia. Perché – e anche questo spesso lo si dimentica – ogni eritreo che attraversa il mare ha in Italia un parente che lo aspetta, che gli ha mandato con Western Union i soldi per lasciarsi alle spalle la dittatura. E di fronte a quei nomi, la ragion politica vacilla.
Sulla base di quale interesse di Stato, Maroni consolerà una madre che su quel container diretto nelle prigioni del Sahara ha il proprio figlio? O peggio ancora la propria figlia, che magari presto sarà violata, oltre che bastonata, dai suoi carcerieri libici.
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